Va riconosciuto l'interesse dello straniero a ottenere l'annullamento anche di un decreto di convalida del trattenimento a seguito di provvedimento espulsivo benchè lo stesso sia stato revocato in autotutela dall'autorità procedente. Ciò sia al fine di ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali derivanti dalla privazione della libertà, sia al fine di eliminare ogni impedimento illegittimo al riconoscimento della sussistenza delle condizioni di rientro e di soggiorno nel nostro territorio (v il link del testo sul sito del Sole24ore cliccando su  Cassazione, 11-30/7/2014 n. 17407 )
Il caso è quello noto di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Muktar Abliazov ricercato dalle autorità del suo Paese con un mandato di arresto internazionale La straniera non solo non andava espulsa dall’Italia essendo il provvedimento di rimpatrio viziato da «manifesta illegittimità originaria», ma nemmeno poteva essere trattenuta nel Cie di Ponte Galeria.  
Su queste basi la Cassazione ha accolto in pieno il ricorso della straniera annullando il decreto del giudice di pace di Roma che il 31 maggio 2013 aveva convalidato le misure coattive. 
A dicembre, Shalabayeva è tornata in Italia con la figlioletta Alua di sei anni e ad aprile ha ottenuto per entrambe l’asilo politico valido cinque anni.
Tra le anomalie riscontrate dalla S.C. c’è anche il blitz nell'abitazione della Shalabayeva. Esso, come rileva la sentenza, aveva per scopo l'esecuzione del fermo in esecuzione del mandato di cattura internazionale di Abliazov e non poteva avere finalità di prevenzione e repressione dell’immigrazione irregolare. 
Per la Cassazione, c’è stata troppa fretta da parte delle autorità italiane: «la contrazione dei tempi del rimpatrio e lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della donna, dall’irruzione alla partenza, hanno determinato un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa». 
Alla Shalabayeva non è stata nemmeno fatta la traduzione delle domande e la polizia - sottolinea la Cassazione - era a «conoscenza dell’effettiva identità della ricorrente», ossia sapeva che era la moglie di un dissidente ricercato. 
Quanto ai documenti della donna, la Suprema Corte osserva che il passaporto diplomatico rilasciatole dalla Repubblica Centroafricana era valido e non contraffatto, e validi erano anche i permessi di soggiorno rilasciati dal Regno Unito e dalla Lettonia.